domenica 13 marzo 2016

CIAO ITALIA




(Foto di Giovanna Eros)


Aveva 14 anni e si annoiava.

Aveva 14 anni, si annoiava e ammazzava mosche oppure girava in circolo per il soggiorno.
Aveva 14 anni, si annoiava, ammazzava mosche girando in circolo nel soggiorno e nello stesso mese c’erano i Mondiali di calcio in Italia.
A causa degli stessi Mondiali il ragazzo possedeva un quaderno che riempiva ogni giorno con le cronache stringate ma ben realizzate, corredate da voti e tabellino, di ogni singola partita.
Il compilatore era il ragazzo stesso che aveva un futuro già scritto da giornalista sportivo.
Il ragazzo guardava ogni singola, maledetta partita di quei Mondiali e se c’erano partite in contemporanea barava, fidandosi poco convinto dei resoconti dei giornalisti.
Il ragazzo non diventò giornalista sportivo e probabilmente a quest’ora starà facendo un lavoro qualsiasi.
Quei Mondiali furono fra i più noiosi di ogni tempo e il caldo non c’entrava proprio niente.
Quei Mondiali però avevano un bellissimo simbolo, incompreso da tutti, dagli adolescenti fino a tutta la stampa nazionale.
Un simbolo scelto con un concorso in cui vinse un grafico di media caratura, il nome anche fu scelto per concorso.
Potevi scegliere sul retro della schedina fra cinque opzioni: chiamarlo Ciao, Amico, Beniamino, Dribbly oppure Bimbo.
Vinse Ciao, la soluzione più facile, ma quel simbolo di amichevole e di ciaoistico aveva poco.
Non era un pupazzo o un animale, non una frutta o una verdura antropomorfizzata.
Più Linea di Cavandoli che manufatto Disney insomma.
Vettoriale, geometrico, gelido, scomponibile, rifletteva l’esordioo del digitale, era già adatto per finire in avveniristiche proiezioni 3D.
La Rai non era ovviamente pronta a sfruttare la sua potenza immaginifica, i capostruttura erano in imbarazzo, restavano di notte insonni a pensare a come farlo interagire con conduttrici opulente ignoranti di calcio.
Avrebbero preferito un orsacchiotto, un asino o magari un ulivo, una quercia.
Le riproduzioni del logo come soprammobile erano sempre agghiaccianti, soprattutto per colpa del pallone che in quella linearità bianco, rosso e verde, sembrava sempre beffardo e mal posto.
Non poteva diventare un oggetto o un souvenir, nulla da poter abbracciare; Ciao era già nella virtualità, era fantascienza applicata ad un evento di massa.
Non se ne vendettero molti oppure si vendettero per uso aziendale e finirono dimenticati in scatoloni e armadi, in ogni caso non diventarono oggetti da recupero vintage, non ce n’è traccia nei mercati.
Eppure qualcuno pensò di rendere omaggio a quel simbolo che prometteva il futuro mentre l’Italia si avviava allegramente alla rovina.
Qualche anonimo geometra inconsapevolmente stava ottenendo dal suo progetto il capolavoro definitivo, un’opera che vale più di tutta l’arte contemporanea della penisola.
Più dei singoli graffiti degli “street artisti” che rendono ogni città uguale all’altra, come duty free di un aeroporto.
Non sappiamo chi a Palagonia, nella profonda Sicilia, propose di onorare una rotonda con una copia di un Ciao a grandezza innaturale.
Una copia con un pallone rosso, inquietante come un Super Santos da film horror.
Non sappiamo se sia stata una licenza dello scultore, non sappiamo nemmeno se dietro ci sia uno scultore o se sia stato prodotto da un’azienda che fabbrica statue di gesso di Padre Pio nelle zone industriali delle nostre cittadine del sud, così distrutte e così amate.
Il manufatto di ferro piazzato in uno slargo qualsiasi deve avere avuto un’inaugurazione trionfale fra assessori del Psi e della Dc.
Tangentopoli era alle porte, due anni e quello splendore sarebbe stato intaccato per sempre.
Poco importa se sia stato vero o falso, era splendore che mai più sarebbe ritornato.
Ora Ciao resta in piedi, arrugginito, nessun essere umano ha sentito la minima pietà e ha provato a restaurarlo, e questo è stato un bene.
Da questa inedia si è formata l’opera.
Un’ opera collettiva, ma non come quei collettivi che inondano di finta arte ogni spazio.
Nessuno ha avuto nemmeno il coraggio di rubarlo o di requisirlo o di proporne la distruzione come se fosse un’opera di regime.
E questo è un bene anche; non ha suscitato emozioni di odio, invidia o avidità.
L’indifferenza a volte può essere la nostra maggiore ancora di salvezza.
La statua di Palagonia meriterebbe di essere protetta come impersonificazione commovente di una decadenza tutta italiana, di venticinque anni di declino, molto più significativo di qualsiasi monumento ai caduti.
Un monumento al caduto.



Ciao Italia

Aveva 14 anni e si annoiava.
Aveva 14 anni, si annoiava e ammazzava mosche oppure girava in circolo per il soggiorno.
Aveva 14 anni, si annoiava, ammazzava mosche girando in circolo nel soggiorno e nello stesso mese c’erano i Mondiali di calcio in Italia.
A causa degli stessi Mondiali il ragazzo possedeva un quaderno che riempiva ogni giorno con le cronache stringate ma ben realizzate, corredate da voti e tabellino, di ogni singola partita.
Il compilatore era il ragazzo stesso che aveva un futuro già scritto da giornalista sportivo.
Il ragazzo guardava ogni singola, maledetta partita di quei Mondiali e se c’erano partite in contemporanea barava, fidandosi poco convinto dei resoconti dei giornalisti.
Il ragazzo non diventò giornalista sportivo e probabilmente a quest’ora starà facendo un lavoro qualsiasi.
Quei Mondiali furono fra i più noiosi di ogni tempo e il caldo non c’entrava proprio niente.
Quei Mondiali però avevano un bellissimo simbolo, incompreso da tutti, dagli adolescenti fino a tutta la stampa nazionale.
Un simbolo scelto con un concorso in cui vinse un grafico di media caratura, il nome anche fu scelto per concorso.
Potevi scegliere sul retro della schedina fra cinque opzioni: chiamarlo Ciao, Amico, Beniamino, Dribbly oppure Bimbo.
Vinse Ciao, la soluzione più facile, ma quel simbolo di amichevole e di ciaoistico aveva poco.
Non era un pupazzo o un animale, non una frutta o una verdura antropomorfizzata.
Più Linea di Cavandoli che manufatto Disney insomma.
Vettoriale, geometrico, gelido, scomponibile, rifletteva l’esordioo del digitale, era già adatto per finire in avveniristiche proiezioni 3D.
La Rai non era ovviamente pronta a sfruttare la sua potenza immaginifica, i capostruttura erano in imbarazzo, restavano di notte insonni a pensare a come farlo interagire con conduttrici opulente ignoranti di calcio.
Avrebbero preferito un orsacchiotto, un asino o magari un ulivo, una quercia.
Le riproduzioni del logo come soprammobile erano sempre agghiaccianti, soprattutto per colpa del pallone che in quella linearità bianco, rosso e verde, sembrava sempre beffardo e mal posto.
Non poteva diventare un oggetto o un souvenir, nulla da poter abbracciare; Ciao era già nella virtualità, era fantascienza applicata ad un evento di massa.
Non se ne vendettero molti oppure si vendettero per uso aziendale e finirono dimenticati in scatoloni e armadi, in ogni caso non diventarono oggetti da recupero vintage, non ce n’è traccia nei mercati.
Eppure qualcuno pensò di rendere omaggio a quel simbolo che prometteva il futuro mentre l’Italia si avviava allegramente alla rovina.
Qualche anonimo geometra inconsapevolmente stava ottenendo dal suo progetto il capolavoro definitivo, un’opera che vale più di tutta l’arte contemporanea della penisola.
Più dei singoli graffiti degli “street artisti” che rendono ogni città uguale all’altra, come duty free di un aeroporto.
Non sappiamo chi a Palagonia, nella profonda Sicilia, propose di onorare una rotonda con una copia di un Ciao a grandezza innaturale.
Una copia con un pallone rosso, inquietante come un Super Santos da film horror.
Non sappiamo se sia stata una licenza dello scultore, non sappiamo nemmeno se dietro ci sia uno scultore o se sia stato prodotto da un’azienda che fabbrica statue di gesso di Padre Pio nelle zone industriali delle nostre cittadine del sud, così distrutte e così amate.
Il manufatto di ferro piazzato in uno slargo qualsiasi deve avere avuto un’inaugurazione trionfale fra assessori del Psi e della Dc.
Tangentopoli era alle porte, due anni e quello splendore sarebbe stato intaccato per sempre.
Poco importa se sia stato vero o falso, era splendore che mai più sarebbe ritornato.
Ora Ciao resta in piedi, arrugginito, nessun essere umano ha sentito la minima pietà e ha provato a restaurarlo, e questo è stato un bene.
Da questa inedia si è formata l’opera.
Un’ opera collettiva, ma non come quei collettivi che inondano di finta arte ogni spazio.
Nessuno ha avuto nemmeno il coraggio di rubarlo o di requisirlo o di proporne la distruzione come se fosse un’opera di regime.
E questo è un bene anche; non ha suscitato emozioni di odio, invidia o avidità.
L’indifferenza a volte può essere la nostra maggiore ancora di salvezza.
La statua di Palogonia meriterebbe di essere protetta come impersonificazione commovente di una decadenza tutta italiana, di venticinque anni di declino, molto più significativo di qualsiasi monumento ai caduti.
Un monumento al caduto.



giovedì 27 novembre 2014

Contro Expo





Milano è scienza, è naviglio, è scala, è shopping, è movida,
è alimenti etici, è spuntini selvatici, è chic, è tutela dell'ambiente ma è anche gioia delle piazze in festa, e addirittura Como.
Sì Milano è Como, non so cosa significhi ma è così.
Non so chi abbia commissionato l'inno dell'Expo e in fondo non me ne frega, non sono qui per scrivere un pezzo di denuncia sugli sprechi che si fanno quando si intraprendono le grandi opere, e si giustifica tutto con un po' di lavoro in più dato ai soliti schiavi.

Il problema è che una cosa del genere negli anni più colorati e bui di Milano non sarebbe accaduta.

Sotto il regime craxiano degli anni '80 ci sarebbe stata una disco dance di qualità oppure un finto jazz raffinato e ben suonato,da colonna sonora di pubblicità.
Anche negli anni ruggenti del berlusconismo si sarebbero inventati qualcosa di meglio, un jingle di Martelli oppure un inno retorico ma che ti entra in testa come quello di Forza Italia, qualcosa che puoi prendere in giro ma di cui non puoi ammirare la perfezione commerciale.
Ora invece non ci sono punti di riferimento, la canzone dell'expo rappresenta in maniera perfetta il paese più della marcetta dal testo polveroso e incomprensibile di Mameli.
Milano è Salvini, Milano è Moratti, Milano è un designer ambizioso, Milano è start up di qualsiasi cosa.
Milano è Italia soprattutto e non è una bella cosa da contemplare.


p.s: La società che organizza l'Expo ha ovviamente dichiarato che si tratta di un brano non autorizzato ma questo non cambia nulla, interpreta perfettamente lo spirito dei tempi, spero che diventi l'inno ufficiale e comunque già lo è.

lunedì 25 novembre 2013

il solito giro


E' molto più interessante l'uomo che annuncia i treni dell'amministratore delegato delle Ferrovie,
è molto più gratificante conoscere l'uomo che supervisiona i semafori che l'assessore con delega al traffico.
L'uomo comune può rivelare più facilmente la sua essenza; l'uomo di potere, proprio per esser arrivato ad un qualche tipo di vertice, è dominato spesso dalla prudenza e retto dall'ipocrisia.
In questi giorni sto leggendo varie cose di Gay Talese, uno degli esponenti maggiori del new journalism.
Pur avendo nell'arco della sua lunghissima carriera scritto su uomini famosi - da Sinatra ad Alì, da Joe di Maggio a Peter O'Toole - ha spesso ritratto personaggi solo apparentemente comuni e raccontato storie apparentemente poco notiziabili.
Così fra i suoi articoli ci sono quelli sull'uomo che cambiava i titoli luminosi in Times Square negli anni '50, quello sulle battaglie dei gatti randagi a New York oppure, uno fra i miei preferiti, quello sul responsabile dei “coccodrilli” del giornale, un tipo schivo che ricopriva un ruolo considerato modesto all'interno della redazione del New York Times.
Talese lo considerava invece un privilegiato.
Mentre gli altri correvano da una parte e dall'altra per inseguire la sfuggente attualità lui viveva tranquillamente al di fuori e al di sopra della stessa, dispensando giudizi ben ponderati sulle esistenze.
Preparava i suoi necrologi cercando di non farsi mai cogliere impreparato, valutando età, stato di salute e necessità di aggiornamento degli stessi.
Talese conosceva bene quel lavoro perché anche a lui era stata affidata la stessa mansione per un periodo, una sorta di retrocessione temporanea per essere stato incapace di scrivere di politica quando gli era stato richiesto.
Non riusciva a ricavare mai più di 7000 caratteri dalla ridda di dichiarazioni e controdichiarazioni di senatori, deputati e delegati dello stato, ed il limite minimo per un articolo del genere sul Times era di 8000 .
Sfuggì successivamente a quel purgatorio passando alla rivista settimanale dove poteva dimostrare il suo talento senza doverlo vincolare alle limitazioni della cronaca.
Mentre leggo Talese scorro gli status Facebook di intellettuali italiani e penso a quello che ci manca.
Gran parte degli status sono espressioni riferite ad un circolo chiuso che inizia in un teatro occupato e finisce in una casa editrice, oppure sono commenti sulle ultime mattane di un vecchio politico sul lunghissimo viale del tramonto o battute sarcastiche su uno nuovo che presto sarà fatalmente inghiottito nel già visto.
Ci sono discussioni interminabili su questioni di rilevanza più o meno locale, la penisola italiana ricopre un ruolo meschino se ampliamo lo sguardo, o comunque su irrilevanti dilemmi che poco o nulla hanno a che vedere con l'esistenza.
Polemiche su discorsi, atti e fatti dell'universo mediatico, includendo in questo tv, blog, web, libri, giornali, riviste e tutto l'armamentario vario;
riferimenti e citazioni per me piuttosto incomprensibili, in particolare da quando ho deciso di connettermi in modo sempre più parziale.

Non mi meraviglio se romanzi, articoli o sceneggiature degli stessi intellettuali evochino quasi tutte lo stesso mondo.
E restano ben delimitati in quel mondo anche quando provano a raccontare altro, a cercar di cavar fuori storie edificanti su proletari oppure a progettare fughe verso l'onirico.
Qualsiasi tentativo, anche se in perfetta buona fede, è destinato ad essere frustrato in partenza.
Quel mondo si riflette nelle facce degli attori, nei dialoghi e perfino nel linguaggio usato, infarcito di parole che mai sono usate nella realtà; parole scritte, non parlate.
Anche quando uno di questi autori ha avuto una brillante intuizione - Francesco Piccolo con il suo libro L'Italia spensierata - ovvero sperimentare esperienze che normalmente componenti del suo ceto intellettuale rifuggono, come incolonnarsi sull'autostrada alla vigilia di Ferragosto, sosta all'autogrill compresa, andare in gita a Gardaland oppure recarsi durante le vacanze natalizie nei cinema a guardare il panettone di Boldi e De Sica, l'operazione fallì, lo sguardo non era mai innocente, ma continuamente venato da giudizi di alterità.
Nessuna descrizione obiettiva, nessuna empatia, nessuna pietà di fronte alle debolezze, solo e unicamente cinismo.
Lo stesso cinismo che conosco bene anch'io per averlo ugualmente e insistentemente praticato in anni di frequentazioni di centri sociali, spazi culturali e controculturali, e per aver cercato di mantenere una specie di cordone sanitario stretto sulle mie conoscenze, come se dovessi evitare il contagio con i barbari.

Per fortuna ci sono delle eccezioni, sempre troppo poche, persone e autori alla caccia dell'insolito:
Gianni Miraglia con le sue missioni in Russia e le sue affermazioni coraggiose contro l'etica del lavoro;
Ivan Carozzi e il suo blog foto testuale (http://theitaliangame.tumblr.com) composto da trafiletti di cronaca datati che raccontano un'epoca meglio di tanta inutile saggistica universitaria, supportando l'ipotesi di Talese secondo cui a volte è molto più utile dare una scorsa agli annunci personali e alle pagine delle edizioni locali piuttosto che leggere gli articoli di fondo e le prime pagine.
E poi c'è Thomas Pololi e la sua raccolta di quadernini delle elementari e delle medie (www.facebook.com/quadernini), un'operazione quasi commovente di recupero di piccole memorie imperfette attraverso temi, composizioni libere e dettati.
O Valerio Millefoglie, nelle cui creazioni, siano esse canzoni, libri, performance dal vivo, prevale sempre il generale sul contingente, se parla di crisi posso esser certo che sta parlando di crisi esistenziale e non di posti di lavoro in aumento o in diminuzione.
Se dovessi mai realizzare una rivista, e so che è un sogno destinato a restare tale, queste sarebbero alcune delle persone che vorrei come collaboratori.
D'altronde tutti i miei autori preferiti, siano essi scrittori, registi o autori teatrali, sono sempre stati poco interessati alla bieca attualità e molto all'attualità della vita che sfugge ai radar delle cronache.

Talese, ad esempio, preferiva gli sconfitti ai vincenti, ed anche quando gli capitava di parlare dei vincenti ne osservava il lato fragile, tutti siamo persi o in procinto di perdere.
Agassi, nella sua bellissima autobiografia Open, dice che la soddisfazione della vittoria è cosa povera e quasi insignificante rispetto alla sofferenza procurata dalla sconfitta.
Pensando ad Agassi, mi viene in mente che sempre più mi piacciono libri di non fiction, biografie, autobiografie, storie vere.
Forse in questo c'è una mia idiosincrasia, eppure non posso fare a meno di sospettare che possa dipendere anche dall'oggettiva difficoltà di creare buone storie quando si spreca l'energia per poter mantenere i rapporti con il mondo attraverso le nostre innumerevoli protesi, o forse perché troppe persone si aggirano attorno al totem della posticcia attualità.

In fondo se penso alla parte di mondo in cui vivo, Roma, non posso fare a meno di notare che spesso abito gli stessi luoghi, riesco a muovermi con sicurezza solo all'interno di un un cerchio chiuso e rassicurante, e ho il sospetto che rischierei di fare lo stesso persino se cambiassi città o nazione.
Troppo spesso ho conosciuto viaggiatori che avevano attraversato il mondo senza cambiare di un millimetro rispetto alle loro consuetudini.
Le loro convinzioni mai scalfite davvero dall'immersione in un luogo altro.

Per questo spesso mi annoio e allora ho deciso di andare nei posti dove non sono mai stato e dove posso contare, o illudermi, di incontrare un'umanità diversa.

Qualche mese fa ho letto un bell'articolo di Walter Siti su una delle strade consolari di Roma, la Tiburtina, e sulla sua trasformazione incessante e silenziosa in una specie di parodia derelitta di Las Vegas per la sua altissima concentrazione di sale bingo e templi pagani dell'azzardo.
Ecco, quando mi capita di imbattermi in zone fuori dal raccordo e costeggio mobilifici di periferia o sale disco dalle luci al neon poco contemporanee, immediatamente penso che in questi posti non ci sono mai entrato, nemmeno una volta, nemmeno per sbaglio, per un provvidenziale incidente, mentre sono stato cento, mille volte in posti dove sono certo di incontrare la solita gente.
Quasi sempre persone dalle esistenze troppo simili alla mia, esistenze confuse, divertenti o complicate, ma in ogni caso riconoscibili.
Così ieri ho deciso di stilare un piano per le prossime settimane.
Un piano che preveda di visitare luoghi e di fare cose che per puro conformismo o abitudine non faccio mai.
Una giornata alle corse, in un ippodromo a scommettere cavalli e la sera successiva ad una riunione di boxe, a bordo ring;
una nottata in una discoteca frequentata dalle comunità sudamericane con i loro cantanti, la loro musica e i loro cocktail;
andare a pesca per un'intera giornata, alternando al silenzio sorsate di whisky per combattere il freddo.
Oppure trascorrere qualche ora di ozio in un night club stile Bada Bing dei Sopranos dove mi sembra che ci possano essere personaggi dalle vite interessanti, che possano scandalizzare il lettore medio di Repubblica, lo spettatore di Fazio o un condomino del palazzo in cui abito.

Non so se da queste esperienze ne ricaverò qualche storia degna di essere messa per iscritto, probabilmente non sono abbastanza abile per farlo, ma in ogni caso qualcosa ne ricaverò.






lunedì 9 settembre 2013

Contro seconde visioni

Torno a casa e la notte non dormo, mi metto a vedere una dopo l'altra le puntate dei Soprano, le conosco a memoria, mi sono molto piu' vicini questi delinquenti dei colleghi che vedro' domani al lavoro.
Vedo quella puntata dove Cristopher Moltisanti è seduto sul divano e sembra depresso, ha la casa sottosopra, chiede a Paulie: Dove è il mio arco?
A tarda notte guardavo I Soprano a bassa voce mentre S. dormiva di là.
Avevo 30 anni e Cristopher chiedeva la stessa cosa disperato, mi sembra di essere sempre fermo li'.
Cristopher sta sempre ai margini, prima si sente non affiliato, ma anche quando lo diventerà non sarà mai soddisfatto, vuole di piu', è troppo ambizioso e nello stesso tempo lo è troppo poco, si fa di eroina.
A un certo punto si mette in testa di voler scrivere un film perchè ha questa fissa del cinema, specialmente dei film sui gangster e la mafia, sta scrivendo quando Paulie entra per portarlo fuori con due bambole e gli chiede Dove è il mio arco?
A qualcuno succede qualcosa ad un certo punto, uno cambia, parte da un punto, finisce in un altro.
Questo mi chiedevo leggendo biografie delle persone celebri, quelle piene di cose che accadono, troppe, cose che sembra non accadano piu'.
Dove è il mio arco? Lei dormiva nella stanza accanto e ci sarebbe rimasta ancora per poco, nessuna voglia di svegliarla, di fare l'amore.
Ero insensibile, anche al dolore, domenica pomeriggio perenne.
Ero a Roma da poco, ci eravamo trasferiti con entusiasmo.
Avevamo preso possesso dela mia casa progettando piccoli interventi che non avevamo mai fatto.
Al principio mi godevo cose che ora troverei assurde: il clima, i frutti al mercato all'aperto in una piazzetta vicino casa, il senso che stesse per accadere qualcosa di buono e che semplicemente non dovessimo muovere un dito per facilitare il destino.
Hai mai la sensazione che non ti accadrà mai nulla di buono? Chiede Cristopher a Paulie.
Cristopher è seduto sul divano, ha uan sigaretta mezza fumata fra le dita, Paulie è in piedi, ha i capelli bianchi tenuti su dalla gelatina, uno sguardo fisso e senza indecisioni, bicipiti ben allenati a sessant'anni.
Pisponde Certo, mi è successo e cosa cambia, sono vivo e riesco a sopravvivere, sono cresciuto, ho fatto qualche anno nell'esericito e qualcuno in galera ed ora eccomi qua, sono un mezzo bravo guaglione.
Christropher lo guarda, quasi sta per mettersi a piangere e dice io non voglio solo sopravvivere, voglio di piu'.
E non sa cos'altro aggiungere.
Dove è il mio arco?

Guardavo quella serie ogni sera e pensavo che avrei voluto essere tanto Paulie ed invece ero sempre sul punto di diventare Christopher.

giovedì 4 luglio 2013

Contro Cubeddu



Sono cresciuto in provincia in un’epoca nella quale i minishorts non erano ancora di moda.

L’altro giorno ero a Roma steso sul prato giocando a fare il Proust con un paio di libri al mio fianco quando sono cominciate ad arrivare a frotte delle ragazzine vestite con pantaloncini cortissimi.

Liceali, alcune addirittura dal viso potevano sembrare tredicenni; fissavo le cosce impietosamente, non riuscivo più a distinguere l’età.


Se avessi vissuto la mia adolescenza in una grande città (Milano, Roma) forse sarei stato più felice, ecco questo è il genere di rimpianti che occupavano la mia mente mentre osservavo queste ragazzine troppo contemporanee.

Puttane ho pensato ma poi mi sono subito pentito, mi venivano in mente le parole di San Paolo sulla bramosia della carne, non sono cattivo, sono soltanto un umile peccatore e un nostalgico.


 Ho nostalgia del petting che non precede niente, del petting, magari spinto, a cui non segue nessuna penetrazione.

Ho nostalgia dei succhiotti che non ho mai avuto, quelli che fa una ragazza quando ha 
14 anni di solito, magari 15, e ancora non conosce il sesso per benino, almeno ai miei tempi era così...

Allora fa dei succhiotti sul collo, dei segni che i tuoi amici vedranno, segni tangibili che ti porti dietro camminando con orgoglio. Segni rossastri, viola. 
Non ho mai avuto quei segni da portarmi appresso quando avrei voluto, li voglio avere ora

Più tardi, assieme a due amici giornalisti, ero in un bar dove andiamo di solito a fare l’aperitivo. Fissavamo trentenni che fingevano di ubriacarsi al bancone con spritz e daiquiri provandoci con il barista muscoloso e laureande in tiro che avevano coperto abilmente le loro occhiaie con l’uso del trucco, ma nel frattempo pensavo soltanto alle mie quattordicenni al parco.

Non avevo mai fatto sesso con una quattordicenne anche quando di anni ne avevo sedici o diciotto o venti. La ragazza più piccola di età con cui ho avuto un rapporto completoera una ventenne, fra l’altro piuttosto scafata come tipo. La più inesperta una venticinquenne che aveva avuto un solo ragazzo prima di me ed era rigida come uno stoccafisso iscritto all’Azione cattolica.

Parlavo stancamente con i colleghi dei nuovi sviluppi della cronaca e della politica,ma la mia mente era altrove.

Pensavo a quegli quei golf che mettevano in risalto seni al loro esordio nel mondo, a quei minishorts che mettevano in rilievo chiappe naturalmente definite senza aver bisogno di sfiancanti sessioni in palestra.

Mi piacciono i seni piccoli che cresceranno, i seni medi che cresceranno, i seni grandi appena sfornati.

Sono allora un maniaco? O peggio il protagonista medio borghese dell’Ultimo bacio diMuccino? No, ho letto l’Ombra delle fanciulle in fiore e so che in rete i video delle teenager sono fra i più cliccati sui siti porno. Sono soltanto uno che vuole passare dalle parole ai fatti.

Il mio prossimo obiettivo è intraprendere una relazione con una quindicenne: una liasion pornographique.

In autobus, tornando a casa, ho cominciato ad ascoltare frammenti di conversazione delle ragazze in minishorts, parlavano sempre incessantemente di ragazzi, quasi mai di interrogazioni, facevano così anche ai miei tempi? Presumo di sì. Noi tornavamo a casa a piedi ed il gruppo delle ragazze e quello dei ragazzi erano separati, ci mischiavamo poco.

Qui in città si mescolano di più, ho notato. Fra questi frammenti, un paio di volte, mi è capitato di ascoltare confidenze sessuali, racconti di incontri con ragazzi e uomini più grandi. Altre ragazze dicevano vaffanculo a denti stretti quando qualche coetaneo cercava di prenderle in giro, li trattavano male e parlavano fra di loro di masturbazione. Altre ancora parlavano di incontri in chat suscitando la mia curiosità.

Come è vestito lui? Mi ha detto che avrà un giubbotto di pelle nera.. se è brutto non ci fermiamo..se è figo me lo faccio..

Poi quando torno a casa su Mtv mandano in onda interviste girate fra San Babila e Duomo, adolescenti che ammettono di aver tradito il proprio ragazzo, ragazze sghignazzanti che telefonano ai vj facendo battutine allusive. Quanti anni hai? dicono i vj, le ragazze con voci acute rispondono 16.

Sui finestrini degli autobus c’è scritto luca 6 bono, oppure mi ti farei. Mi sorprendo ad osservare le scritte, una volta mi ricordo di averne viste sul finestrino posteriore alcune particolarmente grandi: quattro. Tutte firmate da una certa ade, firmate by ade. Ade aveva scritto con quattro pennarelli diversi: uno fucsia, uno verde, uno giallo, unorosso . Per ogni pennarello c'era una persona a cui voleva tanto bene. Scriveva di voler tanto bene a omar, a marco, a luca, a stefano. Pensavo Ade ha un cuore grande così oppure è soltanto una puttanella che prende in giro quattro adolescenti? Sceglievo la prima ipotesi e avrei voluto tanto un pennarello anche per me.

Una cosa del genere mi faceva stare male, anch’io volevo far parte del fantastico mondo di Ade, cosa c’è di male? D’altronde sapevo che non sarei mai riuscito, da solo, a procurarmi conoscenze contando sulla mia capacità oratoria e poi come diavolo approcciarle senza sembrare una specie di pervertito o qualcosa del genere?

Una mia compagna di classe a 15 anni si era messa con uno di 28, come avevano fatto ? Come si faceva una cosa così?

Non avrei mai saputo farlo ,anche se molte ragazze in autobus, nei bar, per la strade, al parco, con minishorts, in tuta, felpa, con gonnellini larghi mi guardano dritto negli occhi e sorridono, molto meno timorose delle ragazze più grandi, meno consapevoli della possibilità di tirarsela.

Sapete, le ragazze a quell’età sono terribilmente curiose ed hanno un tempo sterminato da riempire, fin quando studiano le ragazze non possono evitare di avere brutti pensieri, non si lasciano distrarre da cazzate come lavoro soldi carriera o peggio ancora autorealizzazione. Dopo ci sarà sempre il rischio del deja vu, del banale, la noia sarà dietro l’angolo, non sarà inevitabile, ma sarà dietro l’angolo.

martedì 5 marzo 2013

Contro i vecchi partiti



Mio padre è stato per tutta la vita democristiano, quando è caduta la Dc ha votato in sequenza per Berlusconi, Prodi, una volta perfino Casini, cercando sempre dal suo punto di vista di non sbagliare, non ha mai dichiarato apertamente il suo voto, si intuiva da piccoli gesti e reazioni.

Ho il sospetto che abbia votato Grillo, proprio come me, ne sono contento.

Non lo trovo sintomo di qualunquismo, esaurimento della distinzione fra destra e sinistra, insomma di quelle ovvie conclusioni a cui arrivano miei amici, notisti politici, presunti progressisti di diversa estrazione.

Il venerdì prima delle elezioni ero in Piazza san Giovanni al comizio conclusivo del Movimento, non mi piacciono gli slogan e  così mi sono trovato a disagio quando qualcuno si è messo a gridare “tutti a casa” e gli altri lo hanno ripetuto come un eco.
Non mi sono mai piaciuti gli slogan, mi intriscono gli studenti dei licei quando intonano delle rime quasi sempre stupidamente baciate contro qualche ministro della Pubblica Istruzione, anche se posso condividerne la sostanza non apprezzo la scarsa originalità nella forma.
Eppure quando alcuni candidati iniziarono a parlare in piazza, ero soddisfatto che non riuscissero perfettamente ad articolare le cose che avevano intenzione di pronunciare, apprezzavo le inesattezze lessicali o sintattiche dovute all’emozione, la loro timidezza evidente, i risolini nervosi, i groppi in gola.
Quanta differenza con le stereotipate e piattamente corrette costruzioni grammaticali di gente che da anni ha imparato a conversare in televisione, dei lupi, degli alfano, delle finocchiaro, dei franceschini, le loro discussioni accese o garbate a Porta a Porta o Ballarò, i loro foulard, i loro completi giacca e cravatta di buona sartoria, i loro orologi al polso vistosi e datati.
Dopo un po’ parlò Beppe Grillo, ci sono stati almeno un paio di momenti  in cui mi sono davvero emozionato.
Uno in cui lesse una lunga lettera che qualcuno gli aveva inviato, parlava di gente che usciva dal buio e di occhi che si abituano alla luce, di novità radicali, di cambiamento, era retorica al punto giusto.
L’altro momento accadde alle fine, era una conclusione a braccio, fuori programma, Grillo disse che fra qualche anno ci saremmo rivisti in un paese forse più povero ma più unito e felice perché finalmente con un prospettiva, un futuro, erano parole coraggiose, eppure i servizi al telegiornale il giorno successivo lo definirono comico con il poco rispetto che si ha in Italia per chi sa usare il sarcasmo.
In fondo ogni volta che torno in Italia dopo un viaggio all’estero ho l’impressione che il mio paese si stia sgretolando, me ne comincio ad accorgere giù in aeroporto.
A Fiumicino le indicazioni per raggiungere la stazione ferroviaria o il bagno più vicino sono confuse, i segnali si contraddicono,  il pavimento e il soffitto accennano crepe inaspettate, quando prendi la navetta per raggiungere il centro l’autista mette ad alto volume una radio con un programma sulla Roma o sulla Lazio dove si polemizza per un rigore non dato o la scelta errata di un allenatore; qualsiasi paese europeo, compresi quelli nettamente più poveri dell'Italia, ha una dignità maggiore nell’accoglierti.
La prima cosa che vedi di un paese è importante, ma nessuno si è mai importato della cosa.
Quando Grillo parla di modello danese, oppure cita esperienze e pratiche tipiche della Germania o del Nord Europa, piccole o grandi cose, inezie o aspirazioni utopiche, comprendo di cosa parla,  eppure in rete qualcuno cita Gramsci a sproposito, posta frasi di Mussolini e Hitler, non si ha ritegno nel giudicare.

Io so solo che le mie viscere a San Giovanni hanno tremato, le persone serie quando vogliono definire un modo di comportarsi  poco razionale in ambito politico  usano l’espressione di pancia, i tromboni come Scalfari con sussiego scrivono che la gente ha votato di pancia, i cerchiobottisti infarciscono i loro editoriali con la stessa affermazione ripetuta come un mantra, eppure la pancia non è lontana dal cuore e ho imparato da tempo a diffidare della mia testa.
La pancia ha a che vedere con l’anima, i bambini d’altronde respirano con la pancia e per questo sono più puri, non c’è nulla di male nel non diventare mai pienamente adulti se diventare maturi politicamente significa essere sempre e comunque dalla parte della moderazione più ottusa.

Per un periodo della mia vita ho lavorato ad un canale all news, non facevo il giornalista ma realizzavo i promo, questo mi salvava solo parzialmente dalle cattive frequentazioni che toccano ai giornalisti.


Quando arrivavano i politici per fare le loro ospitate nei talk show, fuori si riunivano gli autisti che li accompagnavano.
Gli autisti dei potenti si assomigliano sempre un po’, sembrano cani da guardia che si scambiano cicche e sguardi complici.
Hanno un lavoro sicuro e una paga che gente del loro livello scolastico si scorda, sanno mantenere i segreti.
Il politico più triste che ho mai visto era uno che teoricamente sarebbe dovuto essere vicino alle mie posizioni politiche, almeno di quando ancora avevo delle posizioni e delle pose.
Ho smesso di averle da quando ho visto questo politico con un cappottone grigio che si aggirava nei nostri studi con sguardo incerto e passo corto, malgrado la notevole lunghezza delle gambe.
Politico sempre contro, politico che minacciava rivoluzioni impossibili, politico con lo  sguardo debole e incerto del frustrato, ministro e allo stesso tempo antiministro, uno che godeva quando una  sua dichiarazione creava scompiglio e repliche immediate, chiarimenti, polveroni.
Ho smesso di credere quando ho visto uomini magri tornare dopo qualche mese con pance prominenti che strabordavano dalle camicie, mentre il grasso colava sui loro menti e le labbra diventavano lucide.
Avevo già previsto lo scandalo Marrazzo una volta che lo vidi sorridere in corridoio con gli occhi brillanti e un’aria di decadenza che gli colorava malamente le guance.
E’ un senso di disagio fisico connesso al potere, è qualcosa che è molto più vicino alla pancia che alla testa.
Il potere è fisicamente brutto, l’ho visto quasi ogni giorno quando era in saletta di montaggio e  le facce che montavo in alcuni promo erano facce da patibolo, anche se cercavo di catturarli nelle espressioni migliori per colpa del mio senso estetico.
Le facce dei politici che parlano ogni giorno del nulla, le facce dei tirapiedi che applaudono in conferenze e congressi alle due del pomeriggio.

Gli autisti dei potenti sono padroni del centro storico di Roma mentre aspettano i loro datori di lavoro che cenano nei ristoranti o si scopano la loro amante.
I poliziotti annoiati e i portaborse di ogni genere e grado dominano la Roma delle tre di pomeriggio, piazzati in ogni slargo.
Una Roma insopportabile, dominata da segni di protervia, una Roma in cui, se non sei un turista ammaliato da chiese e palazzi, puoi resistere solo se fingi di non vedere, solo se sei un vigliacco.

La Roma di quelle feste che un osservatore  come D’Agostino ha mostrato per anni nel migliore ritratto di questa nazione rovinata dalla fedeltà all’oppositore intransigente che si rivelava sempre per essere il miglior complice del suo avversario.
Ricordo alcune foto della moglie di Bertinotti ingioiellata in terrazze con piante bellissime, le bellissime terrazze estive di questa Roma cialtrona, parolaia, rovinata dalle sue pietre antiche e dalla sua inerzia gattona.

La stessa Roma degli uomini di spettacolo e dei loro interessati endorsment, delle coppie come Dandini e Piovani che associo inevitabilmente  a Veltroni, la loro esibita simpatia pubblica contraddetta dalla loro arroganza privata.

Quel modo di intendere la cultura sempre con deferenza, mai con coraggio, sempre con conformismo.
La Roma dei registi senza ispirazione che campano di rendita, degli attori da rivista, dei cabarettisti da strapazzo, dei registi occhialuti e con il terrore del corpo.
E poi i Mannarino, i Rivera, i bravi ragazzi che spacciano la romanità come moneta falsa, con cappelli da inizio novecento, giacche circensi, esaltazioni della vita, ottimisti, conquistatori di donne facili.

Prendersela con Roma non è sufficiente però, le cose non sono poi così diverse nelle cittadine dove la politica è  spesso connessa con le professioni una volta definite liberali.
Avvocati, notai, medici, piccoli avvoltoi che si cibano di grosse e polpose briciole.
Di solito a fare politica sono sempre borghesi con il pacco di dolci sotto il braccio la domenica e parole arzigogolate imparate forzatamente ed a cui non credono: non sanno leggere, non sanno scrivere,  quelli che davvero credevano nella politica quasi sempre li fregano, i militanti più convinti ed ingenui li ritrovavo anni  dopo con un posto di insegnante precario in qualche liceo con alunni complicati.
Avevano perso fiducia nel loro passato, nella loro gioventù o se continuavano a crederci, lo facevano per abitudine.
Ho visto la gente che ha fatto carriera nei  partiti politici della mia città, quando torno e mi informo sulle liste ci sono frequentatori di discoteche di provincia e bar alla moda, hanno usufruito del fatto che i migliori della loro generazione sono emigrati altrove, hanno vinto la loro piccola battaglia.
Ecco per questi motivi, in parte irrazionali, sicuramente di pancia, facilmente confutabili dalle analisi verbose che sono stufo di leggere, ho votato per il Movimento e non me ne pentirò anche se sbagliassero ogni singola mossa da qui ai prossimi cinque anni.